Nel momento in cui un bambino nasce anche una madre sta nascendo. Lei non è mai esistita prima. La donna esisteva, ma la madre, mai. Una madre è qualcosa di assolutamente nuovo. (Osho Rajneesh)
L’esperienza della gravidanza rappresenta un momento particolarmente delicato per la futura madre, per la coppia di genitori ed anche per le rispettive famiglie di origine. La futura madre, nello specifico, è chiamata ad una ristrutturazione della propria identità e del proprio mondo interiore per acquisire il nuovo ruolo materno. Questo processo di ridefinizione di se stessa si muove attraverso due movimenti: uno regressivo, nel tentativo di rielaborare le proprie relazioni con le figure genitoriali, ed uno progressivo, volto all’acquisizione della nuova identità di genitore. Il primo processo è fondamentale, in quanto l’identificazione con la propria figura materna pone le basi per l’acquisizione della nuova identità genitoriale: in parole più semplici, ripercorrendo la traiettoria delle relazioni e dell’attaccamento instaurato con il proprio genitore, la puerpera inizia in modo inconsapevole sia ad acquisire le competenze parentali, sia a creare un legame con il nascituro.
Parallelamente però affinché si realizzi una ridefinizione corretta della propria identità e l’acquisizione della nuova è necessario che la madre si crei uno spazio mentale e rappresentazionale nel quale possa iniziare a fantasticare sull’immagine di sé in quanto madre e sul proprio futuro bambino. Tali rappresentazioni sono fondamentali in quanto permettono alla donna di familiarizzare con il bambino, di porre le basi per la costruzione di un buon legame di attaccamento e per l’acquisizione di buone capacità di caregiving.
Tali processi psichici, che caratterizzano la donna sin dall’inizio della gravidanza avvengono, nella maggior parte dei casi, in modo automatico e senza che vi sia una reale consapevolezza da parte della neomadre; il rischio, tuttavia, compare nei casi in cui tali modifiche psicologiche non avvengano o nel momento in cui non vadano a buon fine. Queste situazioni possono quindi originare dei quadri psicopatologici più o meno gravi e stabili come il maternity blues (MB), la depressione post natale (DPN) o la psicosi puerperale.
Il maternity blues, conosciuto anche come “sindrome del terzo giorno” o “sindrome transitoria”, come già suggerisce il nome, ha un decorso transitorio e reversibile e comparato agli altri disturbi dell’umore risulta più blando e meno pervasivo: emerge solitamente nella prima settimana dopo il parto, normalmente tra il primo ed il terzo giorno ed ha una durata variabile tra le poche ore ed alcuni giorni. Esso si configura come uno dei più comuni disturbi dell’umore manifestati dalle puerpere, con percentuali che vanno dal 30 all’80%.
Le manifestazioni tipiche del disturbo includono due tipologie di sintomi: fisici e psicologici. I primi si manifestano attraverso disturbi del sonno, mancanza di energie, inappetenza, i secondi determinano brusche oscillazioni dell’umore, iper sensibilità, crisi di pianto improvvise, sensazione di isolamento, sentimenti di vulnerabilità, cui possono aggiungersi stanchezza mentale, ansia e stato confusionale.
Collocato sul versante opposto del continuum che idealmente attraversa i disturbi dell’umore nel post partum, individuiamo la presenza di una condizione decisamente più severa, ma nel contempo molto più rara, che prende il nome di psicosi puerperale. La prevalenza della sindrome si attesta intorno allo 0.2% della popolazione generale, con 1-2 casi ogni 1000 nascite.
Le pazienti possono sviluppare sintomi quali: allucinazioni, perplessità, incoerenza, disorganizzazione del comportamento, disorientamento, confusione mentale ed euforia. In alcuni casi, la psicosi post partum rappresenta una manifestazione del disturbo bipolare, una condizione che richiede grande attenzione in quanto la sicurezza della madre e del bambino può essere messa a repentaglio: la puerpera, infatti, può sviluppare deliri collegati all’esperienza materna considerando il proprio figlio posseduto, con forze soprannaturali, divino o morto.
Tra i due disturbi sopracitati, potremmo situare un’altra sindrome: la depressione post natale, alla quale l’opinione pubblica sta forse finalmente volgendo l’attenzione dovuta.
Il DSM V, il manuale di riferimento per eccellenza degli psichiatri e degli psicologi, considera la depressione post-natale come una forma di depressione generale, specificata come “post partum” se ha esordio entro le prime quattro settimane successive al parto; Si stima che tra le neo mamme il 10 – 20% può andare incontro a questo disagio psichico.
Essa include i sintomi quali tristezza, facilità al pianto, mancanza di motivazione, diminuito interesse per il cibo o per la cura di se stesse, difficoltà a concentrarsi e perdita d’ interesse nei confronti del bambino.
Ciò che contraddistingue questa forma di depressione è soprattutto l’insicurezza in relazione alle proprie capacità materne, la sensazione di incompetenza e di disperazione. Si configura, dunque, come una condizione nella quale la neomadre esperisce una sensazione di vuoto, di non avere persone di riferimento, di non aver affetto: vissuti che rischiano di farle perdere interesse per se stessa e per il mondo circostante, ivi compreso il suo bambino.
Si possono osservare depressioni post partum caratterizzate da una sintomatologia lieve o moderata, la cui durata può variare da alcune settimane a pochi mesi, con facile remissione e possibili ricadute, e depressioni post partum più gravi, che possono durare un anno o più.
Infine, negli ultimi anni i ricercatori hanno indagato se l’esperienza del parto potesse rappresentare un evento inquadrabile nella categoria diagnostica dello stress post traumatico. La presenza di un disturbo da stress post traumatico in seguito all’esperienza della nascita mostra come tale problematica, dunque, non riguardi soltanto eventi che oggettivamente sono traumatici e scioccanti, ma anche eventi benigni e felici, come può essere la nascita del proprio figlio.
Un disturbo post traumatico in seguito al parto determina nella puerpera una condizione di re-experiencing nella quale rivive nella propria mente l’esperienza del trauma, l’evitamento degli stimoli associati e non, all’evento traumatico (ad esempio evitamento delle procedure mediche o dell’ospedale, ma anche del contatto con il proprio bambino e dell’intimità sessuale), ripetuti sogni o flashback dell’evento e infine, alti livelli di iper-attivazione e in alcuni casi sintomi dissociativi; il rischio maggiore è che in alcuni casi, lo stesso bambino possa rappresentare un elemento di richiamo dell’esperienza traumatizzante, attraverso una percezione o una sensazione, riattivando tutta la sintomatologia sopracitata. Quando i sintomi non vengono trattati il pericolo è che i comportamenti di evitamento, in primis, tendano a perdurare, determinando a cascata ulteriori problematiche quali: scarsa capacità di far fronte agli eventi, diminuzione di interessi e reattività positiva.
Una conoscenza più approfondita dei disturbi emotivi cui può andare incontro una mamma in seguito all’esperienza meravigliosa come quella della nascita del bambino, potrebbe spingerla ad uscire dalla condizione di isolamento verbale in cui a volte può confinarsi: le elevate aspettative sulla gravidanza prima e sulla maternità poi, della famiglia e della società allargata, possono impedirle di verbalizzare la sua sofferenza e chiedere l’aiuto necessario, rischiando, però, di compromettere la bellissima esperienza dell’essere genitore.