Storia di Davide

Siamo Marianna e Fabrizio, sposati da 4 anni. Viviamo ad Altamura (Bari) e siamo genitori del nostro angelo Davide nato il 17 agosto del 2015, nato con ernia diaframmatica sinistra grave e volato in cielo il 21 settembre del 2015, e del nostro piccolo Alessandro di 3 anni.

Vi racconto la nostra storia, quella che ci ha visti protagonisti con il piccolo Davide.

Faceva capolino il nuovo anno, il 2015 quando nei primi giorni di Gennaio, dopo un ritardo, feci le analisi del sangue per verificare le beta ed il risultato fu alquanto sconcertante, erano altissime, quasi oltre 3000. Premetto che io ed il mio attuale marito non eravamo ancora sposati, ma avevamo fissato la data del nostro matrimonio per il 30 settembre 2016.

Dopo quindi aver accertato la notizia che, non tutti hanno ricambiato subito con grande entusiasmo, abbiamo deciso di portare avanti la gravidanza e non anticipare la data del matrimonio. Tutto procedeva molto bene, anzi più che bene, fino a quando, giunta al sesto mese di gravidanza, mi recai a fare l’ecografia morfologica e la dottoressa dell’ospedale evidenziò una piccola anomalia al diaframma del bambino che subito si fece vedere essere un maschietto. Poiché le settimane diagnosticate di gravidanza non corrispondevano esattamente a quelle del concepimento, i medici furono molto cauti a dare una diagnosi, ma consigliarono di fare ulteriori controlli. Da quel momento in poi gli ospedali e medici non ci hanno mai più abbandonati. D’impatto la cosa non ci preoccupò più di tanto perché ci avevano detto che poteva essere anche una semplicissima ernia iatale, ben diversa da quella diaframmatica o che comunque probabilmente il feto non aveva ancora sviluppato bene i suoi organi e quindi era solo una questione di tempo gestazionale.

Ci recammo presso un altro ospedale della Puglia, a Santeramo in Colle, dove un secondo medico effettuò una seconda ecografia morfologica e fu proprio allora che il mondo ci crollò addosso. Quel medico aveva confermato che il nostro piccolo aveva proprio un ernia diaframmatica. Da quel momento in poi nulla è stato più la stessa cosa e quel momento così magico che vive la donna, quale è la gravidanza, si è trasformato in un è vero e proprio incubo. A distanza di qualche settimana ci siamo recati presso un altro ospedale, il ‘Di Venere’ di Bari, dove un’altra ecografia confermò quella malformazione, a quanto pare rara, ci sembrò in quel momento, per poi scoprire che forse così rara non lo era. A fine di quella visita mi fu detto che avrei dovuto fare un’amniocentesi per verificare che il bambino non avesse altre malformazioni o in generale problemi perché ci fu mostrata una possibilità che faceva intravedere un piccolo spiraglio di luce in fondo a quel tunnel dove regnava buio pesto. Amniocentesi perché avrei avuto anche l’opzione aborto poiché vi erano anche poche possibilità di sopravvivenza del bambino.

Quel giorno, per motivi lavorativi, mio marito non poté accompagnarmi a quella visita e capite bene che dover prendere una tale decisione da sola, dove il fatto stesso di fare quell’esame avrebbe potuto mettere a rischio la vita del bambino, mi mise in crisi. Ma avevo solo poche settimane per scegliere, anche se la decisione di abortire era in assoluto fuori discussione, non lo avrei mai fatto, non potevo sostituirmi al volere di chi quel figlio in ogni caso ce lo aveva donato. Insomma mi sottoporsi all’amniocentesi e le settimane successive non furono certo facili anche perché sarei dovuta stare quanto più possibile a riposo e l’attesa del risultato non rendeva certo le cose facili. Il risultato arrivò e il bambino, se non fosse stato per quel piccolo buchino che non si era chiuso sul diaframma, era perfettamente sano. Una notizia, si poteva dire, confortante poiché avremmo potuto optare per un intervento in utero che permetteva la crescita dei polmoni che per questa malformazione non si erano potuti sviluppare come dovevano poiché altri organi, quali stomaco e parte del fegato avevano preso il loro posto. Durante il consulto con i medici dell’ospedale di Bari dove ci illustrano la situazione, ci fu comunicato che il centro di riferimento in Italia per questo intervento era presso la clinica Mangiagalli di Milano.

La situazione non era affatto rosea, ma per come l’avevano prospettata, dava tutta l’impressione che poi tutto sommato potevamo affrontarla con “tranquillità”. Perciò ci affrettammo a contattare la dottoressa di riferimento della Mangiagalli: la dottoressa I. F. che sin da subito si mostrò molto disponibile. Ci recammo a Milano per un consulto e lo scenario che si aprì davanti ai nostro occhi fu ben diverso da quello prospettato a Bari. La dottoressa F. non smentì l’impressione che ci aveva dato per telefono e mostrò tutta la sua professionalità, ma soprattutto umanità nei nostri confronti, che ci fu di grande aiuto. Da allora l’abbiamo soprannominata il nostro angelo.

Per prima cosa ci spiegò tutto il percorso che avremmo dovuto affrontare sia per l’intervento in utero prima, e l’intervento che avrebbe dovuto affrontare il bambino poi. Alla situazione ormai grave già di suo si aggiungeva il fatto che noi, essendo pugliesi, ci saremmo dovuti trasferire sino alla nascita e per tutta la durata della terapia intensiva del bambino finché non sarebbe stato in grado di uscire dall’ospedale, se mai sarebbe sopravvissuto, a Milano. Questo complicava tutto perché chi avrebbe potuto starmi vicina fisicamente per un tempo non definito, perché fondamentalmente nessuno sapeva e poteva quantificarlo? Potevano essere due, tre, cinque, dieci mesi, addirittura si poteva parlare di anno. Quella luce che sembrava far capolino all’improvviso si spense nuovamente e facendo ritorno a casa migliaia di domande rimbombavano nella nostre teste. Fra tutte, che fare? Andare avanti? Fermarsi? Il tempo non giocava a nostro favore e una scelta andava presa. Quell’intervento in utero aveva un tempo ben definito entro il quale andava fatto, oltre l’occasione era persa.

«Si tratta di dare una possibilità in più al tuo bambino», aveva detto la dottoressa F., ma io sarei stata in grado di affrontare tutto ciò? Ero in grado soprattutto di affrontare, oltre a quel dolore già troppo grande, una distanza grande da casa, dagli affetti più cari? Tuttavia, insieme al supporto di parenti e amici decidemmo che se non saremmo potuti esser noi a decidere se far nascere o no quella vita, non avremmo neanche potuto negare quella possibilità in più di sopravvivere a questa strana malformazione. Nel frattempo decidemmo che si sarebbe chiamato Davide, poiché, essendo molto credenti, quel nome gli si addiceva proprio. Così come il Davide biblico sconfisse il grande Golia, noi speravamo che anche il nostro Davide avrebbe sconfitto il suo Golia.

Così dopo aver preso appuntamento e dopo aver cercato un alloggio a Milano partimmo con mio marito, nel mese di Giugno, pronti o forse no, ad affrontare questa sfida che la vita ci stava affidando. Intervento programmato di F. E. T. O., così si chiama l’intervento che posiziona un piccolissimo, microscopico palloncino (3 mm) nella trachea del bambino e questo avrebbe permesso di far crescere i polmoni di Davide e permettere, alla sua nascita, di poter affrontare un nuovo intervento: quello in cui avrebbero risistemato al proprio posto gli organi risaliti al posto dei polmoni e chiudere il diaframma con un patch poiché il foro al diaframma era molto largo. Tutto questo ci era stato spiegato dalla dottoressa “angelo” proprio in questo modo semplice e spicciolo.

Il giorno dell’intervento ho conosciuto un altro angelo dalle mani d’oro, il dottor N. P., unico in Italia capace di fare questo intervento e anche lui una persona di una umanità che ti lascia senza parole, facendoti stupire che in questo mondo possano ancora esistere persone capaci di fare il loro mestiere con tanta umiltà e passione.

L’intervento andò più che bene e il mio bambino ricevette la sua prima puntura e dopo tre giorni di ricovero mi mandarono a casa, restando sempre a Milano, ma sarei dovuta tornare ogni settimana siano a quando non avrei dovuto fare l’intervento per rimuovere questo palloncino, cioè sei settimane dopo. Durante tutto questo periodo, si sono alternati, per starmi vicino, parenti ed amici poiché mio marito, causa lavoro, non poteva rimanere sempre con me. Ogni settimana mi recavo in ospedale alla Mangiagalli per il controllo ed era un vero spasso. La dottoressa F. dopo aver verificato tutti i parametri e controllato che tutto procedeva per il verso giusto, si divertiva a fotografare la creatura, così lo chiamava lei. Sembrava che si fosse creato una specie di legame. Davide faceva smorfie e regalava sorrisi e quelli erano piccoli angoli di spensieratezza che si creavano nel bel mezzo di quella tempesta.

Intanto il tempo passava ed arrivò il momento di ritornare in ospedale per rimuovere il palloncino e questa volta ci rimasi sino alla data del parto. Ho incontrato un altro piccolo angelo in questo percorso, il dottor F. D., che quasi dispiaciuto mi annunciò che questa volta non sarei potuta tornare a casa perché era troppo rischioso: la placenta era stata toccata troppe volte e si sarebbero potute rompere le acque da un momento all’altro ed era meglio rimanere in ospedale. Il tempo lì, quasi rallentava e sembrava non passare mai, ma quello era il posto più sicuro per me e per il piccolo Davide, quanto più possibile in pancia così da dare la possibilità ai polmoni di crescere ancora di più, insomma era la cosa più giusta da accettare. Anche lì in ospedale ho conosciuto compagne di stanza che mi hanno tenuto compagnia e insieme abbiamo condiviso piccole gioie e grandi dolori.

La cosa che mi spiazzò è stata che ognuno di loro aveva una storia che le aveva portate lì. Storie assurde e malattie di cui non sapevo neanche l’esistenza. Fondamentale è stata la vicinanza di chi prima di noi aveva provato la stessa esperienza, sia con un lieto fine, sia con finale drammatico. Intanto una sera, del mese di Agosto, mi si ruppero le acque e a quel punto il tempo sembrò accelerare. Mio marito era ad Altamura e nel pieno della notte ricevette la mia chiamata e in un battibaleno prenotò il primo volo disponibile e il giorno dopo era a Milano. Arrivato in ospedale, la dottoressa F., dopo aver fatto un’ecografia di controllo, ci rassicurò che il momento non era ancora arrivato e che aspettare non avrebbe fatto altro che bene. In realtà non avevo perso tutte le acque e di liquido ce ne era a sufficienza e Davide poteva stare ancora un po’ lì dentro al sicuro. Per assurdo, con questo tipo di malformazione, i piccoli sono più al sicuro in pancia che fuori.

Allora mio marito ripartì, ma a distanza di una settimana dopo un’ultima ecografia si decise che Davide non poteva stare più lì dentro e che era arrivato il momento di venire al mondo. In tutta fretta mio marito ritornò su a Milano. Iniziata la stimolazione al parto dopo aver atteso un’intera notte, sperando che il travaglio partisse di sua spontanea volontà, ma niente, mi hanno stimolato nuovamente e alle 15 di pomeriggio iniziarono le prime contrazioni, dopo mi ruppero le acque e il travaglio si avviò. Feci la peridurale perché ero esausta anche per tutta la situazione e in men che non si dica Davide venne al mondo alle 11.59 del 17 agosto del 2015. È nato come tutti il bambini del mondo con la sola differenza che il suo primo vagito nessuno lo ha mai sentito e neanche il suo pianto perché anche quando era in incubatrice il suo ero un pianto silenzioso perché intubato. Fu portato subito in terapia intensiva, stabilizzato e intubato ed io non ho potuto vederlo se non in fotografia perché mio marito poté scendere in terapia intensiva e vederlo e stare un po’ con lui.

Anche in sala parto ho trovato delle persone stupende, tra tutte l’ostetrica M. che mi ha assistito. Il giorno dopo stavo meglio e sono potuta scendere anche io a vedere il mio bambino che era stabile e per questo motivo, due giorni dopo la sua nascita, hanno deciso di procedere con l’intervento che, sin da subito dissero, fosse andato bene, ma che le ore successive sarebbero state quelle decisive. Il giorno dell’intervento avevo accanto la mia mamma, mia suocera e i miei cognati, di certo non ero sola, ma non avere mio marito accanto mi faceva sentire sola. E se fosse accaduto il peggio, io che facevo lì da sola? Era una strana sensazione. Non sono mai stata fisicamente da sola eppure a volte mi sono sentita terribilmente sola, perché in quelle situazioni anche io, che credevo avere una grande fede, mi sono chiesta dove fosse Dio, perché permettesse questo.

Nei giorni a venire la situazione era sempre stabile ed alternava giorni in cui sembrava che la situazione stesse migliorando, a giorni in cui la situazione sembrava precipitare. Decidemmo di farlo battezzare e tutto il personale della TIN fu fantastico. Permise a chi in quel momento era lì con me a Milano di assistere al suo battesimo. Era un bambino come tutti nelle sembianze, ma diverso in tutte le cose. Non aveva una culla, ma un’incubatrice e chiaramente anche il suo battesimo fu diverso, ma speciale. Anche in TIN ho conosciuto dei veri e propri angeli che non solo sono dei bravissimi medici e infermieri, la loro professionalità è indiscussa, ma ci sono stati vicino umanamente.

Per quel che era possibile cercarono di creare un ambiente famigliare e pian piano ti ci abitui e varchi quella porta con la stessa facilità con cui varchi quella di casa tua. Mai una volta ci hanno risposto in malo modo nonostante a volte ti rendevi conto di essere molto più che assillante e mai una volta si sono rifiutati di dare risposte a quelle domande più sciocche o scontate che ci passavano per la testa. Fondamentale è stato anche il confronto con tutte le mamme della TIN. Ci si incontrava nella sala tiralatte dove ognuno aveva il suo kit e sperava di riempire il più possibile il biberon perché era fondamentale nutrire i nostri piccoli con il proprio latte. Quante lacrime e a volte risate abbiamo condiviso in quella stanza.

I giorni scorrevano, ma spesso le notti erano insonni con la paura che da un momento all’altro quel telefono squillasse e ci avrebbero detto ciò che non volevamo mai sentirci dire. Un giorno finalmente sono riuscita a prenderlo in braccio e a tenerlo un po’ più vicino a me. È stato un momento che mai dimenticherò, ma allo stesso tempo avevo troppa paura e per una mamma avere paura di fare del male al proprio bambino, mentre lo tiene tra le sue braccia, è terribile. Quello è il posto più sicuro del mondo ed è la sensazione più bella, eppure io avevo paura. Poi quel giorno, credo forse il più brutto da quando tutto era cominciato, ancor più brutto del giorno in cui ci avevano detto il bambino ha una malformazione, quel telefono ha squillato ed allora la corsa in ospedale, e quella strada percorsa centinaia di volte sembrava infinita, sembrava non arrivassimo mai e quando finalmente quella porta si è aperta, la prima cosa che ho fatto è stata guardare quel monitor che ormai avevamo imparato a leggere e sapevamo perfettamente cosa significassero tutti quei numeri. Quel giorno, nel vederlo, ebbi un tonfo al cuore. Tutto sballato, Davide non aveva urinato per tutta la notte e quella situazione in cui era rimasto per troppo tempo senza né migliorare, né peggiorare aveva fatto indebolire tutti gli organi compreso il suo cuoricino che era stato forte e che aveva combattuto fino a quel giorno, ma che aveva deciso di darla vinta a Golia. Davide aveva perso la sua battaglia e noi insieme a lui. Me lo hanno dato tra le braccia fino a che sul monitor non è comparso lo 0 e la linea piatta. Davide era volato in cielo e insieme a lui una parte del nostro cuore. Per tutte quelle ore di agonia che hanno accompagnato la fine di quella assurda avventura ci è stata accanto un’infermiera A., che senza dire neanche una parola, ma con la sola semplice presenza ha cercato di alleviare quell’assurda situazione. Genitori che sopravvivono ai propri figli, questo è contro natura e a noi era successo fin troppo presto.

Questa è la nostra storia che abbiamo vissuto quasi sei anni fa ed è ancora viva nei nostri ricordi e cuori. Perdere un figlio non è una cosa semplice da affrontare, ma noi insieme l’abbiamo affrontata e superata. Non si dimentica mai quel dolore, non va via mai, ma se condiviso può essere superato. Oggi non è rimasto solo il ricordo di quei mesi e del nostro bambino, ma sono rimaste anche delle belle amicizie che ancora oggi cerchiamo di tenere vive anche solo con un messaggio o una chiamata. Non appena ci è possibile facciamo sempre una scappatina a Milano e salutare tutti quelli che in un modo o nell’altro ci sono stati vicino. Per noi Milano oggi rappresenta una seconda casa perché lì abbiamo lasciato un pezzo della nostra storia e del nostro cuore.

Mi fa piacere condividere la nostra storia perché chi come noi si approccia ad affrontare questa battaglia possa capire che si prova tanto tanto dolore, ed è inestimabile, però si può superare con le persone giuste che ti sanno stare vicine.

Grazie a tutto lo staff medico della Mangiagalli che ribadisco essere eccelso in tutto. Grazie a tutti gli amici che ci sono stati vicini e ci hanno sostenuto.

Grazie.

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